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Category Archives: Ricordi

C’era una volta Splinder

31 maggio 2017

Il nome Splinder a molti oggi non dirà più niente, ma per tanti internauti della prima ora ha costituito un porto significativo dove attraccare. Siamo agli inizi degli anni 2000, ed internet era molto diversa da quella di oggi. Da qualche anno si era cominciato ad affermare il fenomeno dei web-log e del personal publishing. Nacquero i primi blog, e per la prima volta chiunque desiderasse dare libero sfogo alla propria voglia di comunicare era libero di farlo  senza condizionamenti, e senza la necessità di essere un tecnico del settore.

La richiesta molto forte da parte dei neo-autori, e l’interesse generale verso il settore produssero la nascita di un numero consistente di piattaforme, con una articolazione estremamente variegata di peculiarità e funzioni. Splinder fu una di queste, e nacque nel 2001 da una idea di Marco Palombi, così come riportato da wikipedia.  L’idea di fondo era quella di riunire le persone accomunate da interessi analoghi. Non era, in assoluto, una idea nuova. In quel periodo furono vari i tentativi di costruire comunità di interesse, in parte per spirito di esplorazione – internet era una sorta di terreno vergine da colonizzare – ma anche per costruire modelli di business efficaci.

Sta di fatto che la nuova piattaforma, qui in Italia, cominciò subito a riscuotere un interesse significativo grazie alle sue funzioni sociali che portano, in breve tempo, alla costruzione di una vera e propria comunità. I social network in quegli anni erano ben lontani dal livello di pervasività di oggi, sia perché ancora del tutto acerbi, ma soprattutto perché in mancanza del supporto di smartphone e connessioni mobili avevano comunque un appeal totalmente differente da quello odierno.

Realtà più tranquille e pacate, come Splinder, permettevano invece di costruire relazioni più ragionate, basate come erano sulla condivisione di interessi, ed il meccanismo di funzionamento era pensato in modo da stimolarle e favorirle. Era un grande plus della piattaforma: io stessa mi sono trovata piacevolmente catturata dalla rete di relazione, arrivando perfino ad essere coinvolta – nonostante la mia timidezza patologica – in un paio di contest di scrittura. Caratteristiche peculiari che facevano perdonare una impostazione tecnica certo non all’altezza della concorrenza più agguerrita. Ma la centralità delle relazioni del suo modello non aveva paragoni, almeno per noi italiani.

Purtroppo anche le cose belle hanno un loro termine. Non conosco dettagli delle ragioni che hanno portato alla chiusura della piattaforma. Certo, i social network hanno contribuito in modo determinante al suo declino, nonostante siano due realtà difficilmente paragonabili. Su Facebook et similia post e riflessioni sono un battito di ciglia destinato a perdersi nel mare magnum della timeline, in un blog sono pensieri che – lungi dall’essere usa e getta – possono, invece, durare nel tempo, nel bene e nel male. D’altro caso non è un caso se  blogosfera si è nel frattempo, sostanzialmente, dissolta.

Ma l’esperienza Splinder è stata unica, e trovare dopo la sua chiusura una casa che riproponesse un feeling analogo è stato impossibile. Certo, ringrazio Altervista, che mi permette di scrivere questi pensieri, e che dal punto di vista delle feature non ha sicuramente paragoni. Ma la nostalgia rimane. Non per l’ambiente, o per il look, ma per le persone che mi ha dato modo di incontrare e conoscere.

Rimettendo mano al mio blog, e pensando che alcuni dei post più vecchi sono stati pubblicati su quella piattaforma, ho sentito doveroso ricordarla.

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Nero Wolfe è un impostore?

10 aprile 201231 maggio 2017

Devo confessare che quando lessi le prime notizie sulla riapparizione televisiva di Nero Wolfe, il mitico investigatore oversize partorito dalla fervida creatività di Rex Stout, non sono riuscita a contenere un sorriso di soddisfazione.
Sarà che vivo una fase della vita che ti porta ad attribuire un valore speciale ai ricordi dell’infanzia, ma la serie televisiva prodotta dalla RAI alla fine degli anni ’60 – quando non avevo ancora dieci anni – ha per me un significato particolare. Sono state proprio quelle storie che mi hanno spinto ad andare ‘oltre’ la rappresentazione televisiva, e ad addentare i romanzi da cui erano tratte. Grazie a quelle facce amiche ho scoperto un mondo – quello della letteratura – di cui sono ancora oggi una vorace ed accanita seguace.

E sarà per l’amore che porto per la lettura – ed anche per il rispetto per le opere degli scrittori – che appartengo alla ‘fazione’ di coloro che pensano che le trasposizioni visuali, cinematografiche o televisive che siano, dovrebbero avere la capacità di rispettare il più fedelmente possibile le intenzioni dell’autore.
Cosa che, però, e specie negli ultimi tempi, accade sempre più raramente. Specie sul piccolo schermo, dove anche personaggi con una realtà storica vengono allegramente (o forse sarebbe meglio dire spudoratamente) manipolati a fini narrativi. Vedi il case recente delle polemiche sulla fiction su Walter Chiari o, peggio, di come è stata travisata la storia della ribellione postunitaria nello sceneggiato sul mio conterraneo Carmine Crocco.

Probilmente la stessa preoccupazione doveva essere condivisa dallo stesso Rex Stout ai tempi della produzione della serie diretta da Giuliana Berlinguer. Preoccupazione forte, e forse mista a un certo pregiudizio, se ebbe a dichiarare di aver concesso i diritti televisivi di dodici dei suoi romanzi solo perchè non ne avrebbe mai visto il risultato.
Timori che si sono poi rivelati, poi, del tutto infondati, visto che quella che fu portata nelle case degli italiani  fra il 1969 ed il 1971 è stata, a mio giudizio, di gran lunga la migliore delle tante trasposizioni che ho avuto l’occasione di vedere. Infatti, nonostante i limiti narrativi della TV dell’epoca, che preferiva le tecniche teatrali a quelle cinematografiche, sugli schermi approdò un’opera che trasudava da ogni poro l’originalità della costruzione di Stout.

Credo sia infatti indiscusso che il successo della creature di Rex Stout sia stato dovuto proprio alla sua idea di riunire i filoni della narrativa poliziesca deduttiva – a la Conan Doyle – con quella hard boyled  di Chandler o di Hammet. La coppia Nero Wolfe e Archie Goodwin sono la sintesi di queste due scuole, con il pachiedermico ed eccentrico Nero ad impersonare intelligenza e ragionamento, mentre l’elegante e dinamico Archie fornisce il supporto dell’azione.
Tino Buazzelli e Paolo Ferrari, gli attori che furono chiamati ad interpretare i due personaggi, riuscirono magistralmente nel compito loro assegnato. Chi ha letto i romanzi da bene quanto sia Nero che Archie siano figure molto complesse. Particolarmente quella di Wolfe che sarebbe riduttivo definire eccentrico:  se è lento e pachidermico, è anche sornione, ironico e sottile. E’ rigidamente legato alla routine quotidiana, nei romanzi non esce mai di casa per lavoro – che considera un accidente da evitare – ma è capace di rinunciarvi totalmente se deve ottenere il suo scopo, come nel caso della lotta ad Arnold Zeck. Ma anche il personaggio di Archie Goodwin non è da meno, assolvendo an una vasta gamma di ruoli – da una sorta di cameriere personale  di Wolfe, a pungolo, amministratore, segretario, uomo d’azione. Bello, elegante, donnaiolo quanto Wolfe è misognino, è il braccio operativo di Wolfe nella New York in cui si svolgono la maggior parte delle sue storie. Un mix per nulla facile da rappresentare sullo schermo.

E’ chiaro che il remake di quello che è stato un grandissimo successo della televisione di un tempo, scolpito ancora nella memoria di tante persone, costituiva una sfida difficile da affrontare. Il raffronto con i vari prodotti del passato, non solo nazionali, è immancabile ed automatico.
Forse sono state queste le considerazioni che hanno spinto gli autori del Nero Wolfe moderno ad una azzardata quanto discutibile discontinuità con il passato: spostatare le vicende da New York a Roma. Anche se, ad essere maligni, si potrebbe pensare che le motivazione di fondo possano essere state molto più veniali.

Sta di fatto che il primo degli episodi della serie – la traccia del serpente – si apre proprio con il trasferimento di Nero Wolfe ed Archie Goodwin nella capitale Italiana. Nella puntata viene chiarito anche il motivo di questo esilio, dovuto ad un disaccordo con il capo dell’FBI. Il che è una ulteriore stranezza: i contatti di Wolfe con l’FBI sono rari, visto che i casi che risolve non sono di competenza federale. E’ vero, Nero ha avuto uno scontro con J. Edgar Hoover in Nero Wolfe contro l’FBI, peraltro nel 1965, ma la vicenda avrebbe mai potuto avere un esito diverso dalla vittoria di Wolfe?

Ancora più improbabile è che sia Wolfe, che Goodwin, sfoggiano un perfetto italiano privo di qualsiasi tipo di inflessione. Particolare prontamente giustificato dal fatto che Wolfe avrebbe lavorato a Roma come ufficiale di collegamento durante la seconda guerra mondiale.
Ma anche ammettendo che un breve periodo di permanenza italiana di Nero sia stato sufficiente ad acquisire una così profonda padronanza della lingua italiana, di gran lunga migliore di molti degli altri personaggi autoctoni della vicenda, come può mai essere lo stesso per Archie, il ragazzotto dell’Ohio suo collaboratore, che invece in Italia non c’era mai stato?

Lo spostamento in Italia, oltre a creare questa discrasia di base, priva Wolfe di quel tessuto di relazioni che sono una costante funzionale alla costruzione delle sue storie. Il commissario Cramer, il sergente Stebbins, il giornalista Lon Cohen, la mondana Lily Rowan, il trio Saul Panzer/Fred Durkin/Oriville Cather, sono tutte pedine che Stout usa abilmente nei suoi romanzi e che hanno un ruolo chiave in tutte le vicende. E’ ovvio quindi che dovevano essere introdotti dei contraltari nazionali per ognuna di queste figure.
Ecco così apparire nella storia la giornalista Rosa Petrini, una sorta di fusione dei personaggi di Cohen e Rowan, il commissario Graziani al posto di Cramer, un non meglio identificato ‘maresciallo’ nel ruolo che fu di Rowcliffe e Stebbins. Figure che appaiono tutte una caricatura di quelle originariamente pensate da Stout.
E’ oggettivamente vero che la sparizione di alcuni personaggi è tutto sommato ininfluente all’economia delle storie, come nel caso del cuoco. Ma, visto il peso che la gastronomia ha nella personalità di Wolfe, i rapporti fra Nero e Fritz Brenner, il fatto che essendo quest’ultimo svizzero sarebbe stato più facilmente giustificabile sia la sua conoscenza dell’italiano sia il suo trasferimento in Europa, mi chiedo: perchè rimpiazzare il suo personaggio con Nanni Laghi?

Inizia così, con un impianto deficitario di elementi fondamentali, la prima delle storie di questa serie televisiva. Con un impatto inziale del tutto negativo. Nero Wolfe arriva a Roma, e la sua prima attività è – orrore!! – quella di partecipare ad una riunione mondana per lavoro:  per farsi pubblicità. Incontra donne in assenza di Archie. Gira allegramente per i prati. Afferma che si è costruito una immagine di eccentrico. Cose che mai avrebbe fatto il vero Nero Wolfe.
Come, allo stesso modo, sono del tutto fuori luogo le improbabili analisi deduttive a la Holmes in cui spesso si lancia: non solo non si addicono per nulla al personaggio originale, ma sono anche del tutto maldestre nella formulazione. Sorvolando sulle prime analisi in cui si estrinseca all’arrivo nella nuova abitazione, il colmo viene raggiunto quando Wolfe deduce la professione della Petrini da vistose macchie nere che fanno corona alle unghia curate della ragazza, attribuendone la causa al contatto con l’inchiostro dei nastri della macchina da scrivere.  A parte il fatto che chi ha usato gli antenati dei word processor sa bene che a macchiarsi erano i polpastrelli e non le unghia, ma di grazia: quale donna dell’alta società romana avrebbe mai avuto la faccia di andare ad una manifestazione mondana con unghia così luride?
A me sembrano scene più consone a parodie del tono della serie Scary Movie che non a polizieschi che abbiano una pretesa di serietà.

Su questa linea si dipana una narrazione che del romanzo originale mantiene solo il cuore della trama. Che si dipana molto lentamente, ed è infarcita di citazioni alle storie originali che sono del tutto superflue. E che, a volte, sono anche discutibili, come quando Laghi afferma di aver lavorato con lo chef Jerome (Berin, uno dei personaggi del romanzo Alta Cucina) ed inventore delle famose saucisse minuit di cui Wolfe è ghiotto. Notizia che è del tutto ininfluente ai fini della storia, e anche errata: nell’ecosistema di Stout, Jerome Berin lavorava per il Corridona di San Remo e non per il Marmont di Sorrento.

Tutti gli attori sono sotto tono. Il Wolde di Pannofino avrà anche il settimo di tonnellata della stazza di Nero, ma della persona furba, paranoica, irascibile, schiva, misogina, sorniona, imprevedibile (e potrei continuare con gli aggettivi) ha ben poco, se non nulla. Si muove troppo, è troppo accondiscentente, è troppo annacquato… è troppo banale.
Allo stesso modo il Goodwin di Sermonti ha una connotazione da bravo ragazzo troppo simile al Giudo Zanin di un medico in famiglia. Nulla a che spartire con il personaggio elegante, duro e tombeur de femmes studiato da Stout per far da contraltare a Wolfe.

Così come ho visto la stessa superficialità nelle ambientazioni. A partire dai costumi, anacronistici e del tutto improbabili per gli anni ’50. Specie quelli della giornalista Petrini, che indossa improbabili pantaloni diritti in un periodo storico famoso per le vaporose gonne a campana, e con un taglio di capelli che per l’epoca dei boccoli e delle onde sarebbe stato a dir poco futuristico.
Per non parlare degli arredi dello studio di Wolfe, minutamente descritti nei suoi romanzi, della sua enorme collezione di libri rilegati in pelle – rimpiazzata da pochi volumi di poco prezzo disordinatamente appoggiati agli scaffali – e del vuoto dovuto alla assenza del suo famoso mappamondo.

Ma c’è una spiegazione a tutta la vicenda. Che Nero e Archie siano rimasti a New York, ben nascosti nella loro casa di arenaria. E che a Roma abbiano spedito i loro alter-ego, i due attori Ashley Jarvis and Dale Kirby di The doorbell rang.
E’ l’unica spiegazione logica.
Perchè a me questo Nero Wolfe sembra proprio un impostore.

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Kiss me

13 maggio 201129 maggio 2017

Ebbene sì. Lo devo confessare. Anche io sono una di quelle a cui piace – e molto – andare per negozi a fare shopping. Anche solo ‘window shopping’, visto che sia a causa del mio fisico, sia per lo stato non brillante delle finanze personali, gli acquisti sono regolati da una stretta logica pragmatica.
Ma andare a zonzo per la città, anche solo guardando le vetrine, è un modo semplice e rilassante per spostare la mia attenzione dai miei problemi verso altre destinazioni. Quando, poi, ho la possibilità di portarmi a casa anche oggetti di poco conto – sono una appassionata di collane, orecchini ed anelli e se ne trovano di bellissimi per una manciata di monetine – sono ovviamente ancora più contenta.

In effetti sono una a cui piace l’espressività della moda, intesa come mezzo per mezzo per manifestare la propria personalità, e non come forma di conformismo o di affermazione di effimeri status-symbol. E mi da fastidio la moda griffata: credo che ogni donna sia in grado di esprimere al meglio la propria immagine senza dover necessariamente ricorrere a capi da boutique.

D’altro canto è una cosa che mi è sempre piaciuta, fin da quando ero giusto una bambina. Da piccola ero una grande appassionata delle bamboline di carta, gioco semplicissimo ma per me di grande fascino. Ne facevo tantissime, ricalcando le silouette dai giornali e disegnando improbabili vestitini dalle immancabili linguette.
Nel mondo di oggi, pieno di giocattoli iper-tecnologici, un balocco così semplice farebbe certamente storcere il muso. Per me aveva un significato particolare: i giocattoli per le bambine mi erano preclusi. Avrei fatto carte false per avere una scatola di Crea la Moda o un Dolce Forno! Quindi sono ben conscia di avere un occhio poco obiettivo. Ma sono fiduciosa che le donne della mia età, che sicuramente ci avranno giocato da piccole, le ricorderanno almeno con simpatia.

Comunque non credo proprio di essere la sola ad averle ancora in mente. Già alcuni lustri or sono ne è nata in Giappone una versione informatica: il Kisekae Set System, un formato grafico pensato per realizzare le cosiddette KiSS Dolls. Bamboline a tutti gli effetti, le Kiss Dolls possono essere abbigliate semplicemente trascinando i singoli capi nel punto giusto.
Ci sono vari programmi di visualizzazione, quasi tutti freeware, ed un mucchio di Kiss Dolls disponibili  su internet: dalle originali in stile manga ad altre a tematica più tradizionale. E se alla mia età non ho più il tempo per giocarci, ho trovato il piacere di diventarne collezionista. Peraltro molte pagine web interattive di Dress Up Games sono basati sull’idea alla base di KiSS.

Ma, visti i progressi tecnologici, ci si poteva fermare qui? Ovviamente no. Il passo successivo era passare in 3D e lo strumento più adatto io l’ho trovato nel più famoso dei mondi virtuali. Da qualche settimana sono ritornata su Second Life.
Ci ero già stata un po’ di tempo or sono, ma forse l’avevo approcciato male, prendendolo come una sorta di chat avanzata. Essendo timidissima e non particolarmente loquace, la cosa a suo tempo non mi aveva entusiasmato più di tanto. Affrontato con occhi differenti mi sono rapidamente ricreduta.

In effetti è l’evoluzione quasi perfetta delle vecchie e care bamboline di carta di quando ero bambina, Ora sono diventate 3D, molto realistiche e completamente interattive. Consentono veramente di dare sfogo alla fantasia e di esprimere, attraverso il proprio avatar, quella personalità che spesso è ostico mostrare nella vita di tutti i giorni.
In più è un ambiente ottimo in cui fare shopping virtuale, che dal mio punto di vista è altrettanto appagante quanto quello reale. E, vista la grandissima disponibilità dei cosiddetti freebies, capi totalmente gratuiti, è possibile andare per shopping e crearsi un sconfinato armadio virtuale senza spendere nemmeno un centesimo! Se solo fosse reale!!

E’ proprio vero, in un cantuccio della mente si rimane bambini.
Specie se da piccole non ci si è potute esprimere quanto si sarebbe voluto.

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