
Devo confessare che quando lessi le prime notizie sulla riapparizione televisiva di Nero Wolfe, il mitico investigatore oversize partorito dalla fervida creatività di Rex Stout, non sono riuscita a contenere un sorriso di soddisfazione.
Sarà che vivo una fase della vita che ti porta ad attribuire un valore speciale ai ricordi dell’infanzia, ma la serie televisiva prodotta dalla RAI alla fine degli anni ’60 – quando non avevo ancora dieci anni – ha per me un significato particolare. Sono state proprio quelle storie che mi hanno spinto ad andare ‘oltre’ la rappresentazione televisiva, e ad addentare i romanzi da cui erano tratte. Grazie a quelle facce amiche ho scoperto un mondo – quello della letteratura – di cui sono ancora oggi una vorace ed accanita seguace.
E sarà per l’amore che porto per la lettura – ed anche per il rispetto per le opere degli scrittori – che appartengo alla ‘fazione’ di coloro che pensano che le trasposizioni visuali, cinematografiche o televisive che siano, dovrebbero avere la capacità di rispettare il più fedelmente possibile le intenzioni dell’autore.
Cosa che, però, e specie negli ultimi tempi, accade sempre più raramente. Specie sul piccolo schermo, dove anche personaggi con una realtà storica vengono allegramente (o forse sarebbe meglio dire spudoratamente) manipolati a fini narrativi. Vedi il case recente delle polemiche sulla fiction su Walter Chiari o, peggio, di come è stata travisata la storia della ribellione postunitaria nello sceneggiato sul mio conterraneo Carmine Crocco.
Probilmente la stessa preoccupazione doveva essere condivisa dallo stesso Rex Stout ai tempi della produzione della serie diretta da Giuliana Berlinguer. Preoccupazione forte, e forse mista a un certo pregiudizio, se ebbe a dichiarare di aver concesso i diritti televisivi di dodici dei suoi romanzi solo perchè non ne avrebbe mai visto il risultato.
Timori che si sono poi rivelati, poi, del tutto infondati, visto che quella che fu portata nelle case degli italiani fra il 1969 ed il 1971 è stata, a mio giudizio, di gran lunga la migliore delle tante trasposizioni che ho avuto l’occasione di vedere. Infatti, nonostante i limiti narrativi della TV dell’epoca, che preferiva le tecniche teatrali a quelle cinematografiche, sugli schermi approdò un’opera che trasudava da ogni poro l’originalità della costruzione di Stout.
Credo sia infatti indiscusso che il successo della creature di Rex Stout sia stato dovuto proprio alla sua idea di riunire i filoni della narrativa poliziesca deduttiva – a la Conan Doyle – con quella hard boyled di Chandler o di Hammet. La coppia Nero Wolfe e Archie Goodwin sono la sintesi di queste due scuole, con il pachiedermico ed eccentrico Nero ad impersonare intelligenza e ragionamento, mentre l’elegante e dinamico Archie fornisce il supporto dell’azione.
Tino Buazzelli e Paolo Ferrari, gli attori che furono chiamati ad interpretare i due personaggi, riuscirono magistralmente nel compito loro assegnato. Chi ha letto i romanzi da bene quanto sia Nero che Archie siano figure molto complesse. Particolarmente quella di Wolfe che sarebbe riduttivo definire eccentrico: se è lento e pachidermico, è anche sornione, ironico e sottile. E’ rigidamente legato alla routine quotidiana, nei romanzi non esce mai di casa per lavoro – che considera un accidente da evitare – ma è capace di rinunciarvi totalmente se deve ottenere il suo scopo, come nel caso della lotta ad Arnold Zeck. Ma anche il personaggio di Archie Goodwin non è da meno, assolvendo an una vasta gamma di ruoli – da una sorta di cameriere personale di Wolfe, a pungolo, amministratore, segretario, uomo d’azione. Bello, elegante, donnaiolo quanto Wolfe è misognino, è il braccio operativo di Wolfe nella New York in cui si svolgono la maggior parte delle sue storie. Un mix per nulla facile da rappresentare sullo schermo.
E’ chiaro che il remake di quello che è stato un grandissimo successo della televisione di un tempo, scolpito ancora nella memoria di tante persone, costituiva una sfida difficile da affrontare. Il raffronto con i vari prodotti del passato, non solo nazionali, è immancabile ed automatico.
Forse sono state queste le considerazioni che hanno spinto gli autori del Nero Wolfe moderno ad una azzardata quanto discutibile discontinuità con il passato: spostatare le vicende da New York a Roma. Anche se, ad essere maligni, si potrebbe pensare che le motivazione di fondo possano essere state molto più veniali.
Sta di fatto che il primo degli episodi della serie – la traccia del serpente – si apre proprio con il trasferimento di Nero Wolfe ed Archie Goodwin nella capitale Italiana. Nella puntata viene chiarito anche il motivo di questo esilio, dovuto ad un disaccordo con il capo dell’FBI. Il che è una ulteriore stranezza: i contatti di Wolfe con l’FBI sono rari, visto che i casi che risolve non sono di competenza federale. E’ vero, Nero ha avuto uno scontro con J. Edgar Hoover in Nero Wolfe contro l’FBI, peraltro nel 1965, ma la vicenda avrebbe mai potuto avere un esito diverso dalla vittoria di Wolfe?
Ancora più improbabile è che sia Wolfe, che Goodwin, sfoggiano un perfetto italiano privo di qualsiasi tipo di inflessione. Particolare prontamente giustificato dal fatto che Wolfe avrebbe lavorato a Roma come ufficiale di collegamento durante la seconda guerra mondiale.
Ma anche ammettendo che un breve periodo di permanenza italiana di Nero sia stato sufficiente ad acquisire una così profonda padronanza della lingua italiana, di gran lunga migliore di molti degli altri personaggi autoctoni della vicenda, come può mai essere lo stesso per Archie, il ragazzotto dell’Ohio suo collaboratore, che invece in Italia non c’era mai stato?
Lo spostamento in Italia, oltre a creare questa discrasia di base, priva Wolfe di quel tessuto di relazioni che sono una costante funzionale alla costruzione delle sue storie. Il commissario Cramer, il sergente Stebbins, il giornalista Lon Cohen, la mondana Lily Rowan, il trio Saul Panzer/Fred Durkin/Oriville Cather, sono tutte pedine che Stout usa abilmente nei suoi romanzi e che hanno un ruolo chiave in tutte le vicende. E’ ovvio quindi che dovevano essere introdotti dei contraltari nazionali per ognuna di queste figure.
Ecco così apparire nella storia la giornalista Rosa Petrini, una sorta di fusione dei personaggi di Cohen e Rowan, il commissario Graziani al posto di Cramer, un non meglio identificato ‘maresciallo’ nel ruolo che fu di Rowcliffe e Stebbins. Figure che appaiono tutte una caricatura di quelle originariamente pensate da Stout.
E’ oggettivamente vero che la sparizione di alcuni personaggi è tutto sommato ininfluente all’economia delle storie, come nel caso del cuoco. Ma, visto il peso che la gastronomia ha nella personalità di Wolfe, i rapporti fra Nero e Fritz Brenner, il fatto che essendo quest’ultimo svizzero sarebbe stato più facilmente giustificabile sia la sua conoscenza dell’italiano sia il suo trasferimento in Europa, mi chiedo: perchè rimpiazzare il suo personaggio con Nanni Laghi?
Inizia così, con un impianto deficitario di elementi fondamentali, la prima delle storie di questa serie televisiva. Con un impatto inziale del tutto negativo. Nero Wolfe arriva a Roma, e la sua prima attività è – orrore!! – quella di partecipare ad una riunione mondana per lavoro: per farsi pubblicità. Incontra donne in assenza di Archie. Gira allegramente per i prati. Afferma che si è costruito una immagine di eccentrico. Cose che mai avrebbe fatto il vero Nero Wolfe.
Come, allo stesso modo, sono del tutto fuori luogo le improbabili analisi deduttive a la Holmes in cui spesso si lancia: non solo non si addicono per nulla al personaggio originale, ma sono anche del tutto maldestre nella formulazione. Sorvolando sulle prime analisi in cui si estrinseca all’arrivo nella nuova abitazione, il colmo viene raggiunto quando Wolfe deduce la professione della Petrini da vistose macchie nere che fanno corona alle unghia curate della ragazza, attribuendone la causa al contatto con l’inchiostro dei nastri della macchina da scrivere. A parte il fatto che chi ha usato gli antenati dei word processor sa bene che a macchiarsi erano i polpastrelli e non le unghia, ma di grazia: quale donna dell’alta società romana avrebbe mai avuto la faccia di andare ad una manifestazione mondana con unghia così luride?
A me sembrano scene più consone a parodie del tono della serie Scary Movie che non a polizieschi che abbiano una pretesa di serietà.
Su questa linea si dipana una narrazione che del romanzo originale mantiene solo il cuore della trama. Che si dipana molto lentamente, ed è infarcita di citazioni alle storie originali che sono del tutto superflue. E che, a volte, sono anche discutibili, come quando Laghi afferma di aver lavorato con lo chef Jerome (Berin, uno dei personaggi del romanzo Alta Cucina) ed inventore delle famose saucisse minuit di cui Wolfe è ghiotto. Notizia che è del tutto ininfluente ai fini della storia, e anche errata: nell’ecosistema di Stout, Jerome Berin lavorava per il Corridona di San Remo e non per il Marmont di Sorrento.
Tutti gli attori sono sotto tono. Il Wolde di Pannofino avrà anche il settimo di tonnellata della stazza di Nero, ma della persona furba, paranoica, irascibile, schiva, misogina, sorniona, imprevedibile (e potrei continuare con gli aggettivi) ha ben poco, se non nulla. Si muove troppo, è troppo accondiscentente, è troppo annacquato… è troppo banale.
Allo stesso modo il Goodwin di Sermonti ha una connotazione da bravo ragazzo troppo simile al Giudo Zanin di un medico in famiglia. Nulla a che spartire con il personaggio elegante, duro e tombeur de femmes studiato da Stout per far da contraltare a Wolfe.
Così come ho visto la stessa superficialità nelle ambientazioni. A partire dai costumi, anacronistici e del tutto improbabili per gli anni ’50. Specie quelli della giornalista Petrini, che indossa improbabili pantaloni diritti in un periodo storico famoso per le vaporose gonne a campana, e con un taglio di capelli che per l’epoca dei boccoli e delle onde sarebbe stato a dir poco futuristico.
Per non parlare degli arredi dello studio di Wolfe, minutamente descritti nei suoi romanzi, della sua enorme collezione di libri rilegati in pelle – rimpiazzata da pochi volumi di poco prezzo disordinatamente appoggiati agli scaffali – e del vuoto dovuto alla assenza del suo famoso mappamondo.
Ma c’è una spiegazione a tutta la vicenda. Che Nero e Archie siano rimasti a New York, ben nascosti nella loro casa di arenaria. E che a Roma abbiano spedito i loro alter-ego, i due attori Ashley Jarvis and Dale Kirby di The doorbell rang.
E’ l’unica spiegazione logica.
Perchè a me questo Nero Wolfe sembra proprio un impostore.
